Paesi
Argentina
TERRITORIO, POPOLAZIONE, ECONOMIA
5000 chilometri di coste affacciate sull’Atlantico e, soprattutto, i passaggi che divide con il Cile all’estremo sud per le rotte tra i due oceani (Stretto di Magellano, Canale di Beagle, Passaggio di Drake) hanno una grande importanza strategica.
Ma è lo stacco netto tra le grandi pianure a est e la Cordigliera delle Ande, che segna il confine a ovest, a dare il profilo distintivo dell’Argentina: i 105 metri sotto il livello del mare della Laguna del Carbon e i 6.962 metri di altitudine dell’Aconcagua costituiscono il punto più basso e il punto più alto dell’emisfero occidentale.
Al di qua delle Ande, sono tutte terre basse. A Nord, il Gran Chaco, un vasto bassopiano di prateria e arbusti con un clima subtropicale; poi, scendendo, la sterminata steppa arida della Pampa, e la Mesopotamia argentina, tra i fiumi Paraná e Uruguay, bassa e paludosa; all’estremo sud, il deserto freddo della Patagonia e della Terra del Fuoco.
L’Argentina ha un’estensione di 2.780.400 kmq., più di 9 volte l’Italia; ma la popolazione è di circa 44 milioni, solo il 70 % di quella italiana. Il tasso di popolazione urbana è tra i maggiori del mondo (circa il 92%) e la distribuzione sul territorio è fortemente sbilanciata: un terzo degli abitanti del paese si concentra nell’agglomerato metropolitano della capitale Buenos Aires, mentre estese aree, soprattutto nel sud patagonico, hanno una densità bassissima.
La stragrande maggioranza degli argentini è di origine europea, mentre i meticci, con ascendenze miste europee e indigene, sono circa il 6,5 % e gli amerindi solo il 3,4 %. La percentuale di cattolici è nominalmente molto alta (vicino al 90 %), ma quella dei praticanti è meno del 20 %.
L’immigrazione europea è calata progressivamente a partire dagli anni ’50: per il difficile clima politico argentino e il restringimento delle regole per l’accoglienza, ma anche per la ripresa economica del vecchio continente. Invece è continuata e cresciuta la migrazione regionale, che ha fornito soprattutto manodopera a basso livello di specializzazione.
Tuttora in Argentina ben il 39,6% del territorio è destinato al pascolo per l’allevamento (bovini e cavalli nella Pampa, ovini e caprini in Patagonia) e un altro 14% circa alla produzione agricola. Il paese è uno dei maggiori produttori mondiali di carne, latticini e lana, ma la forza lavoro impiegata nel settore primario è meno del 1,5%.
Nonostante l’Argentina sia vicina all’autosufficienza energetica, abbia notevoli risorse minerarie e un’industria tra le più diversificate dell’America Latina, nella crisi dei primi anni 2000 nella sola regione di Buenos Aires è stato chiuso il 40% delle fabbriche. Con la ripresa del periodo successivo, il sistema economico si è terziarizzato, reagendo ai mutamenti dei mercati: attualmente il settore terziario assorbe circa il 75% della forza lavoro e produce circa il 65% del PIL.
In Argentina c’è un alto livello culturale e l’istruzione è gratuita, ma in quella di secondo grado si assiste ad un’alta percentuale di abbandoni. Il basso livello di completamento degli studi superiori è ovviamente un problema delle classi sociali più basse, ma anche delle regioni più povere e periferiche.
Il paese è come una gigantesca provincia con un unico centro gravitazionale, totalmente asimmetrico rispetto al territorio: Buenos Aires. Anche le reti stradale e ferroviaria si dipartono a raggiera dalla capitale.
Gli squilibri e le distanze all’interno del paese probabilmente sono tra le cause delle sue difficoltà. Un secolo fa l’Argentina era una delle nazioni più ricche del mondo, ma, nonostante le notevoli risorse, negli ultimi decenni è stata afflitta da crisi economiche ricorrenti, anche molto gravi.
STORIA E ATTUALITÀ
LA COLONIZZAZIONE
Tra il 1526 e il 1529, il navigatore italiano Sebastiano Caboto risalì l’enorme estuario in cui i fiumi Uruguay e Paranà si uniscono prima di sfociare nell’Atlantico. Al ritorno, Caboto riportò oggetti d’argento, probabilmente degli indigeni Guaraní, così si pensò che da lì si potesse arrivare alla Sierra del Plata, luogo misterioso di un leggendario “tesoro d’argento”. Da allora, questo imbuto d’acqua dolce, lungo 290 chilometri e largo da 48 a 220 chilometri, venne chiamato Rio de la Plata, cioè, in spagnolo, fiume dell’argento, e quella terra fu conosciuta come “Tierra Argentina”. Qui, dove l’estuario incontra l’oceano, nel 1536 il conquistador Pedro de Mendoza fondò la città di Santa Maria de Buenos Aires, che sarebbe presto diventata uno dei porti più importanti delle colonie spagnole in sud America.
L’INDIPENDENZA
Nel 1810, la “Rivoluzione di maggio”, con la destituzione del viceré, fu per le colonie sudamericane il primo passo verso la rottura dalla corona di Spagna. C’erano le guerre napoleoniche, e le recenti rivoluzioni francese e americana ispiravano gli indipendentisti: a Buenos Aires, Manuel Belgrano (avvocato e intellettuale di origine ligure) costituì il primo governo delle Province Unite del Rio de la Plata, formato a maggioranza da “criollos” (di origine europea, ma ormai distanti dal vecchio continente). Belgrano inventò anche la bandiera argentina (con al centro il “sol de mayo”) e condusse, con il grado di generale, le guerre per l’indipendenza. L’indipendenza fu dichiarata nel 1816 (il 9 luglio 2016 è stato celebrato il “bicentenario”), anche se la vittoria definitiva arrivò nel 1824.
In realtà, l’Argentina era ancora lontana dall’essere uno stato strutturato e pacificato. Fino oltre la metà dell’800, i “caudillos” governavano e spadroneggiavano le province con i loro eserciti privati. L’esito delle guerre civili tra “unitarios” (centralisti) e “federales” (autonomisti) avrebbero segnato la forma istituzionale e il futuro del paese.
Juan Manuel de Rosas, proprietario di immensi territori, diventò governatore della provincia di Buenos Aires, fino a quando una rivolta militare lo destituì e lo costrinse alla fuga, aprendo la strada all’approvazione, nel 1853, della Costituzione federalista che, tranne alcune modifiche, è tuttora in vigore. De Rosas passò alla storia come un dittatore sanguinario, capace di eliminare senza scrupoli i nemici politici e di fare terra bruciata degli “indios”.
Per quest’ultimo aspetto però, non può essere considerato un caso isolato. Anche se prima dell’arrivo degli europei queste terre non erano molto popolate e i conquistadores spagnoli ne avevano presto decimato gli abitanti, nella seconda metà dell’800 erano ancora presenti diverse etnie locali. Avendo come obiettivo la colonizzazione della pampa, il nuovo governo si impegnò a sottomettere i territori ancora controllati dagli “indios”: quando la cosiddetta “Campagna del deserto” finì nel 1884, gli indigeni sopravvissuti allo sterminio erano solo 30.000.
L’IMMIGRAZIONE
“Sbarazzata” senza troppi scrupoli delle popolazioni amerinde, l’Argentina aveva dunque bisogno di braccia e di cervelli per far fruttare il suo immenso territorio: e li chiamò soprattutto dall’Europa.
Fu un’operazione pianificata e perseguita sistematicamente, tanto da essere prevista fin dall’art. 25 della Costituzione del 1853, che stabiliva: “Il governo federale incoraggerà l'immigrazione europea; non potrà restringere, limitare o gravare con alcuna imposta l'ingresso nel territorio argentino degli stranieri che abbiano per oggetto coltivare la terra, migliorare le industrie, introdurre e insegnare le scienze e le arti.” Del resto, il principale ispiratore della Costituzione, Juan Bautista Alberdi, sosteneva che “governare significa popolare”. L’immigrazione dall’Europa era considerata un motore di sviluppo e di civilizzazione e un modo per azzerare definitivamente l’influenza degli elementi indigeni residui.
La legge del 1876 su “Immigrazione e Colonizzazione” e la creazione, nel 1898, dell’Ufficio Generale dell’Immigrazione e dell’Hotel de Inmigrantes a Buenos Aires regolamentarono e gestirono questa grandiosa operazione, che prevedeva anche la concessione gratuita di 25 ettari di terreno a tutti i nuclei familiari (nel primo decennio del ‘900, altre leggi stabilirono invece la possibilità di espulsione per motivi di sicurezza nazionale e ordine pubblico, esplicitamente intese ad arginare l’importazione di idee socialiste, anarchiche o sindacali).
Arrivarono in massa. L’Argentina, un paese grande 9 volte l’Italia, nel 1850 contava solo 1.100.000 abitanti; nel 1895 erano 4.000.000; nel 1914, 7.900.000; nel 1947, 15.800.000.
Vennero dalla Germania, dagli Stati Uniti, dalla Russia…, molti erano ebrei che fuggivano dalle persecuzioni; ma soprattutto vennero dalla Spagna e dall’Italia. Come nel Far West, arrivavano gli immigrati, si costruiva la ferrovia, si fondavano villaggi, città, porti… anche con capitali stranieri, soprattutto inglesi.
Per tanti l’emigrazione fu una scelta definitiva, ma non per tutti. Dopo il 1880, con i nuovi transatlantici, il viaggio diventò molto più veloce ed economico, tanto che arrivare in Sud America costava meno che arrivare in Germania in treno. Molti contadini italiani sfruttavano le stagioni opposte dei due emisferi per partecipare ogni anno ai raccolti sia in Italia che in Argentina: li chiamavano “golondrinas”, le “rondini”.
Dal 1876 al 1976, con punte massime tra il 1905 e il 1914, partirono per l’Argentina 3 milioni di italiani: per sfuggire alla povertà, alla forte pressione demografica e alle pesanti tassazioni che li affliggevano nel nostro paese. Inizialmente erano piemontesi, veneti, lombardi, liguri… poi molti partirono anche dal sud: siciliani e campani soprattutto. La maggior parte di loro parlava solo il dialetto e imparò lo spagnolo praticamente senza passare dalla conoscenza dell’italiano.
Attualmente, l’insieme degli italo-argentini e degli argentini di origine italiana costituiscono il primo gruppo etnico del paese: 20-25 milioni di persone, più del 50% della popolazione.
Anche Osvaldo Pugliese e Astor Piazzolla, tra i massimi autori e interpreti di tango, avevano origini italiane. Il tango è infatti il frutto di un mix tra le varie culture europee e il suo alone malinconico conserva forse traccia della nostalgia dell’emigrato; e poiché la storia del paese è, di fatto, una storia di immigrazione, ciò che era nato come musica e ballo nei quartieri del porto è diventato l’espressione culturale argentina più conosciuta e popolare.
TRA GOLPE E PERONISMO
All’inizio del ‘900, l’economia argentina era in rapida crescita, ma con grandi disuguaglianze regionali e sociali. I governi erano allineati con l’oligarchia conservatrice, ma nel 1916 la nuova legge che stabiliva per la prima volta il suffragio universale maschile e il voto segreto permise il trionfo elettorale dei radicali, portatori delle istanze del ceto medio in ascesa. Il presidente Hipólito Yrigoyen iniziò una politica di trasformazione e promozione sociale, ma le pressioni, i contrasti anche all’interno del suo partito, le violenze che dilaniavano il paese e la crisi economica del 1929 indebolirono molto il suo governo. Il suo ultimo intervento fu per calmierare i prezzi e rompere il cartello del settore petrolifero. Poche settimane dopo, il 6 settembre 1930, fu rovesciato da un golpe militare: il primo di una lunga serie che annullerà il voto popolare per molti decenni.
L’Argentina, governata dalle destre, galleggiò a fatica nella crisi mondiale degli anni Trenta e rimase a lungo neutrale. Nel ’43, un colpo di stato di militari filofascisti coincise con una fase di appoggio ai tedeschi, che avevano iniziato a subire le prime significative sconfitte, ma si rifornivano di materie prime argentine. Questa tendenza fu invertita nel ‘44, prima con la rottura delle relazioni diplomatiche e un avvicinamento agli Stati Uniti e poi, verso la fine del conflitto nel 1945, con la dichiarazione di guerra alla Germania. Ciò non impedì a diversi criminali nazisti di primo piano (come Eichmann, Priebke, Mengele) di trovare, sotto falso nome, rifugio e una seconda vita nel paese sudamericano.
Durante il conflitto, era anche iniziata la carriera politica del colonnello Juan Domingo Perón: prima segretario del Ministro della Guerra, poi Direttore del Dipartimento del Lavoro. Con questo ruolo, tentò una politica di accordi con il sindacato, guadagnandosi il carcere. Il 17 ottobre 1945, le sommosse popolari organizzate dal sindacato e da alcuni socialisti ottennero la sua liberazione e sancirono la nascita del movimento peronista.
Alle elezioni del 1946, Perón si presenta polarizzando il paese in due aree contrapposte in un assortimento singolare: da entrambe le parti, si contavano infatti esponenti dichiarati di destra e sinistra. Diventato presidente con il 56% dei voti, Perón consolidò rapidamente il suo potere con processi politici, rimozioni, arresti di oppositori e modifiche alla Costituzione.
L’Argentina si ritrovava in una congiuntura economica eccezionalmente favorevole: era creditrice nei confronti delle potenze che aveva rifornito di carne e grano durante la guerra, godeva della vicinanza politica e geografica con gli Stati Uniti, ormai egemoni nell’area occidentale, e poteva giovarsi della debolezza della concorrenza dei paesi europei, sfiniti e in macerie. Questo permise al governo di applicare una politica di benessere e diritti sociali che il paese non aveva mai conosciuto e che veniva ampiamente propagandata e capitalizzata da Perón e dalla moglie Eva. Il sistema “consumava” i benefici economici tralasciando investimenti e sviluppo e dimostrò di essere insostenibile non appena il contesto mondiale cambiò.
Dal 1950, la situazione economica cominciò a peggiorare, costringendo il governo a tagliare la spesa pubblica, a contrarre un prestito dalla Banca Mondiale e a firmare contratti di sfruttamento petrolifero con le compagnie nordamericane. Nel 1955, un golpe militare costrinse Perón alla fuga e all’esilio. Il corpo imbalsamato della moglie Evita (morta nel ’52, a 33 anni) venne nascosto dal nuovo regime, che temeva sarebbe diventato oggetto di culto, e dopo molti spostamenti fu seppellito, sotto falso nome, nel Cimitero Maggiore di Milano, dove rimase per molti anni.
Il governo militare mise al bando comunismo e peronismo, ma nel ’58 Arturo Frondizi vinse le elezioni proprio grazie all’appoggio dei peronisti. Dopo un nuovo golpe militare nel ‘62, nel ’63 divenne presidente Arturo Illia, un medico di origini italiane (il padre veniva dalla provincia di Sondrio e la madre dalla provincia di Brescia).
Illia rimosse subito i divieti e le restrizioni che pesavano su peronisti e comunisti e intraprese una politica di protezione sociale, intervenendo su pensioni e salari minimi, calmierando i prezzi e investendo su alfabetizzazione e istruzione. Frondizi aveva concesso ai privati lo sfruttamento petrolifero, lasciando allo Stato i rischi imprenditoriali dell’esplorazione e dell’andamento dei prezzi, ma Illia riportò i vantaggi del settore in mani pubbliche; d’altra parte, proprio un controllo più efficace delle imprese pubbliche divenne parte della riorganizzazione generale dell’economia attuata dal suo governo. In pochi anni, il Prodotto Interno Lordo, la produzione industriale e il salario medio crebbero sensibilmente, mentre diminuirono disoccupazione e debito estero.
Ciononostante, le elezioni legislative del 1965 videro la vittoria del peronismo, mentre nelle forze armate si agitavano le diverse fazioni e una massiccia campagna di stampa antigovernativa, alimentata da potenti settori economici e da diverse forze politiche (compreso l’ex presidente Frondizi), reclamava il golpe militare, che arrivò puntualmente, il 28 giugno 1966. Alejandro Lanusse, l’ultimo di una serie di presidenti sostenuti dall’esercito, in un clima di continue agitazioni annunciò di voler ristabilire la democrazia. Per la prima volta da 10 anni, nel ’73 si svolsero le elezioni generali, con il trionfo del peronismo.
Dopo 18 anni di esilio, il 21 giugno, Juan Domingo Perón ritornava in Argentina. All’ultimo momento, fu cambiata la destinazione dell’atterraggio, ma all’aeroporto di Ezeiza lo aspettavano 3 milioni di sostenitori. Le due anime del peronismo, quella di destra e quella di sinistra, paradossalmente unite per tanto tempo in nome del leader populista, furono improvvisamente divise da una strage: cecchini dell’ala estremista di destra spararono sull’ala di sinistra e sui Montoneros, facendo 13 vittime e 365 feriti. Alla morte di Perón, un anno dopo, gli successe al potere la moglie Isabel Martinez, detta Isabelita, in un clima di conflitti interni al partito, terrorismo e movimenti paramilitari.
Il 24 marzo del 1976, con un nuovo golpe militare, presero il potere gli ideatori della strage di Ezeiza: come il segretario personale di Perón, José López Rega, la “Tripla A” (la sua organizzazione paramilitare), e il generale Jorge Rafael Videla, che rimase presidente di fatto fino al 1981, con un regime dittatoriale di inedita violenza. Si stimò che gli oppositori scomparsi (desaparecidos) in quegli anni fossero tra i 15.000 e i 30.000: prevalentemente giornalisti, sindacalisti, studenti ed intellettuali.
Nel 1982, l’Argentina intraprese una guerra contro il Regno Unito per la sovranità sulle isole Falkland-Malvinas. La sconfitta e la morte di 600 soldati obbligò il regime, già in profonda crisi, ad indire elezioni democratiche.
RITORNO ALLA DEMOCRAZIA
Dopo tanti anni, il 30 ottobre 1983 l’Argentina tornò a votare. Il Partido Justicialista (peronista), ottenne ancora il 40% dei consensi e la maggioranza in Senato, ma a vincere con il 52% e la maggioranza alla Camera fu la Unión Cívica Radical, con Raúl Alfonsín eletto presidente. Dopo decenni di golpe militari e anni di terrorismo di Stato, la transizione democratica non si presentava facile.
Il 15 dicembre 1983, Alfonsín ordinò di processare i dirigenti delle organizzazioni guerrigliere ERP e Montoneros da un lato e, dall’altro, le tre giunte militari che avevano governato dal 1976 in poi. Contemporaneamente, creava la CONADEP (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas, Commissione Nazionale sulle Sparizioni di Persone), che nel settembre dell’’84 avrebbe prodotto il rapporto “Nunca Más” (“Mai più”). Il processo alle giunte passò dal tribunale militare a quello civile, che condannò Jorge R. Videla e Eduardo Massera all'ergastolo, Roberto Viola a 17 anni, Armando Lambruschini a 8 anni e Orlando Ramón Agosti a 4 anni di prigione. La condanna era un fatto senza precedenti, viste le esperienze di quegli anni in altri paesi (Uruguay, Cile, Brasile, Spagna, Portogallo, Sudafrica…), dove si negoziavano transizioni “pacificatrici”.
Settori consistenti delle Forze Armate non accettavano di essere sottoposti a giudizio e continuavano a costituire una minaccia. Nella settimana di Pasqua del 1987, una grande insurrezione militare, detta dei “carapintadas” (facce dipinte), venne contrastata solo grazie ai milioni di persone che uscirono in strada. Con il paese sull’orlo di una guerra civile, Alfonsín, non riuscendo a farsi obbedire dall’esercito, trattò segretamente la cessazione dei processi contro i militari per violazione di diritti umani. Insubordinazioni e rivolte di militari continuarono ancora nell’’88, finché le leggi “de Obediencia Debida” (“sull’Obbedienza Dovuta”) e “de Punto Final” (“sul Punto Finale”) ne archiviarono colpe e responsabilità.
Il governo Alfonsín ristabilì l’autonomia universitaria, diede il via al Piano Nazionale di Alfabetizzazione e al Piano Alimentare Nazionale, approvò le leggi sulla “patria potestà condivisa” e sul divorzio e tentò di avviare, senza successo, un progetto per spostare l’asse politico-economico del paese, che con Buenos Aires vive da sempre un centralismo eccessivo ed anomalo rispetto all’estensione del territorio.
L’Argentina divenne protagonista nei processi di pacificazione e democratizzazione dell’America Latina e nella creazione del Grupo Contadora, per trattare le condizioni del debito estero.
LA GRANDE CRISI
Nel 1983, dopo anni di dittatura militare, il debito argentino era arrivato a 66.000 milioni di dollari e la produzione era ormai alla bancarotta. Nel 1985, Alfonsín mise in atto il “Plan Austral”, che lui stesso definì “economia di guerra”: il piano riuscì a contenere temporaneamente l’inflazione, ma non risolse i problemi strutturali. Il congelamento dei salari, l’identificazione del sindacato con il peronismo e la permanenza della legge sindacale della dittatura fascista crearono le condizioni per uno stato di agitazione permanente che costrinse il governo ad approvare una nuova legge. Nel 1988, l’inflazione salì al 343% e nel 1989 si innescò un processo di iperinflazione oltre il 3.000% annuo, portando la povertà a record storici.
In questo clima, le elezioni del maggio 1989 videro la vittoria del peronista Carlos Menem, con il 51% dei voti. Per la prima volta in Argentina, si assisteva al passaggio democratico dal presidente di un partito al presidente di un altro partito.
Menem attuò una politica liberista . Per stabilizzare l’inflazione, promulgò la Ley de Convertibilidad (legge di convertibilità) che sanciva l’equivalenza tra dollaro USA e peso argentino; poi, la privatizzazione di molte imprese, l’apertura del commercio e la firma del Trattato di Asunción, che diede il via al Mercato Comune del Sud (Mercosur) con Brasile, Uruguay e Paraguay. Ma nei suoi due mandati di governo, disoccupazione, povertà, lavoro nero e criminalità non fecero che aumentare, così come il debito estero, che arrivò a quasi 82.000 milioni di dollari. Dalla fine del ’98, iniziarono per l’Argentina i 4 anni della recessione più devastante della sua storia.
Nel ’97, dall’unione di diverse forze politiche nacque l’Alianza para el Trabajo, la Justicia y la Educación (Alleanza per il lavoro, la giustizia e l’educazione), detta semplicemente Alianza, che diede vita al governo di Fernando de la Rúa. Un pacchetto di misure economiche detto corralito impose (con il sostegno dei mercati e degli organismi finanziari internazionali) la totale bancarizzazione dell’economia. I provvedimenti, tra cui il divieto di prelevare denaro contante dalle banche, penalizzarono soprattutto il ceto medio.
In alcune città, si verificarono le rivolte popolari dei cosiddetti piqueteros e nelle aree più povere vennero anche saccheggiati dei negozi. Nel dicembre 2001 le manifestazioni divennero famose con l’espressione cacerolazo, perché la gente scendeva in strada percuotendo pentole (cacerolas). Il presidente de la Rúa annunciò in diretta TV lo stato di assedio, con la sospensione delle garanzie costituzionali, provocando solo una reazione popolare ancora più forte e una trentina di morti negli scontri.
Alle dimissioni di Fernando de la Rúa, fu nominato presidente provvisorio Adolfo Rodríguez Saá, del Partido Justicialista, che annunciò subito il “default”, con la cessazione dei pagamenti (sia ai creditori privati, sia agli organismi internazionali) dei titoli del debito pubblico argentino. Ma, di fronte agli attacchi dei manifestanti più radicali agli edifici di governo e parlamento, anche Rodríguez Saá, appena insediato, si dimise. Lo sostituì, sempre come presidente provvisorio, il suo compagno di partito Eduardo Duhalde, che pose fine alla parità fittizia tra peso e dollaro. Nel 2002, quasi il 60% degli argentini era ormai sotto la soglia della povertà.
GLI ULTIMI ANNI
Nel 2003 si tornò a votare e venne eletto presidente Néstor Kirchner, che con il “Fronte per la Vittoria”, il suo nuovo partito, incarnava la sinistra peronista. Anche grazie alla ristrutturazione del debito, a condizioni internazionali favorevoli e a politiche di espansione, l’economia ricominciò a crescere ad una media di 8,5% l’anno. Per arginare l’inflazione, il governo perseguì il contenimento dei prezzi e restrizioni nelle esportazioni.
Nel 2007, come capo del “Fronte per la Vittoria” e sostenuta anche da una coalizione di centro-sinistra, fu candidata ed eletta presidente (con il 45,29% dei voti) la moglie Cristina Fernandez de Kirchner. Tra gli altri provvedimenti, nel 2010 è stato riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Nel contesto della gravissima crisi internazionale, anche la ripresa argentina iniziò a rallentare, ma la Fernandez de Kirchner venne comunque rieletta per un secondo mandato nel 2011, con uno schiacciante 54,11%.
Il governo mise in atto una politica di maggior intervento dello stato in economia, con nazionalizzazioni, misure restrittive sulle importazioni, irrigidimento di controlli sui movimenti di denaro e sulla fuga di capitali. L’Argentina pretese anche un arbitrato internazionale per valutare le responsabilità nella crisi del 2001 e firmò accordi con la Cina per rafforzare le riserve della Banca Centrale.
Inflazione ed erosione del potere di acquisto provocarono un calo di popolarità del governo e lo spinsero ad adottare misure monetarie e fiscali più restrittive e la svalutazione del peso nei confronti del dollaro. Ma il mancato rimborso dei bond provocò uno scontro legale con i fondi d’investimento statunitensi e, il 31 luglio del 2014, il default tecnico dell’Argentina.
Tra il 2014 e il 2015, si è cercato di ritrattare il debito estero, rinegoziare contenziosi e migliorare i rapporti con la finanza internazionale, ma non sempre con successo.
Nel clima di malcontento per la difficile situazione economica, la morte in circostanze poco chiare di un procuratore, impegnato in un’inchiesta (poi archiviata) che coinvolgeva la presidente Fernández de Kirchner e altri politici, ha scatenato una protesta sfociata nella grande manifestazione del 18 febbraio 2015.
Il 10 dicembre dello stesso anno è stato eletto Presidente Mauricio Macrì: ex presidente del Boca Junior, imprenditore, figlio di un milionario ex immigrato italiano. Il corso politico dei 12 anni della presidenza dei coniugi de Kirchner, da molti considerato “populista” e incentrato sui diritti civili e su una economia keynesiana a sostegno del mercato interno e del salario, è stato invertito in pochi mesi.
Intenzione dichiarata del nuovo governo è il risanamento del debito, ma con le liberalizzazioni e la svalutazione, di fatto ha favorito soprattutto il settore imprenditoriale di grandi dimensioni; stesso risultato hanno ottenuto le diverse forme di detassazione, che, dall’altra parte, hanno ridotto drasticamente le entrate dello Stato e di conseguenza le politiche sociali. Massicci licenziamenti di dipendenti pubblici, soprattutto nelle amministrazioni della sanità e della cultura, e ancor più nel settore privato; aumenti nei prezzi dal 300 al 500% di servizi come luce, gas, acqua e trasporti, a cui è stato tolto il sostegno dello Stato; il drastico incremento dell’inflazione, della disoccupazione e degli indici di povertà… Gli slogan elettorali della “Rivoluzione dell’Allegria” che avevano accompagnato l’ascesa del presidente Macrì faticano a trovare riscontro nella realtà della vita degli argentini.
Oltre al pesante ricorso a “Decreti di Necessità e Urgenza” e a interventi diretti nei campi della giustizia e della comunicazione, suscitano reazioni nell’opposizione anche gli atteggiamenti e i provvedimenti piuttosto “morbidi” rispetto ai nodi e alle responsabilità della dittatura di Videla.
A questo proposito, mentre gli studi statistici dell’Università Cattolica Argentina segnalavano l’incremento dei livelli di povertà nel paese, Papa Francesco, argentino lui stesso, inviava in carcere a Milagro Sala un rosario benedetto: un gesto politicamente imbarazzante per il presidente Macrì, che ha sempre sostenuto la legittimità dell’arresto preventivo dell’attivista sindacale, conosciuta per aver organizzato una rete di cooperative, case e servizi popolari in una delle provincie più povere dell’Argentina.
Ma se le opposizioni e le critiche, anche autorevoli, non mancano, il governo Macrì gode dell’appoggio degli Stati Uniti (il presidente Obama, in visita nel 2016, ha parlato di “nuova era” per il Paese), che attribuivano alla de Kirchner un atteggiamento antiamericano e, fattore forse ancora più rilevante, di un miglioramento dei rapporti con il circuito finanziario internazionale e dell’apprezzamento dei sostenitori del liberismo.