22/12/2024
22/11/2010

"Ho visto
morire il Sud"

23 novembre 1980, sono le 19:34 quando una scossa di terremoto di 6,5 gradi della scala Richter scuote l'Irpinia per 90 secondi. Alla fine si conteranno 2998 morti, 8245 feriti e 234.960 senzatetto. Vi riproponiamo un articolo del 1980 scritto per L'Espresso da un giornalista d'eccezione: Alberto Moravia

“Ho visto morire il sud”
di Alberto Moravia
(dal settimanale “L’Espresso” del 7 dicembre 1980)

IRPINIA. L’elicottero è un mezzo noioso, si sta sospesi sul paesaggio come da un balcone semovente; ma è certamente un mezzo istruttivo. Dall’elicottero mentre voliamo verso l’Irpinia sconvolta dal terremoto, si può vedere quanto fitto e quanto delicato, appunto perché fitto, sia il tessuto di rapporti umani, sociali, economici e storici della nostra antica e disgraziata patria.
Qualsiasi trauma, viene fatto di pensare, potrebbe essere evitato in un paese come il nostro, tanto fragile e tanto fitto! Qualche volta i traumi sono prodotti dagli uomini: guerre, rivoluzioni, emigrazioni; qualche volta dalla natura stessa tutt’altro che domata nonostante l’antichità dell’insediamento umano: alluvioni, terremoti. L’elicottero sorvola una fila di grotte montuose, sbuca su una conca nel mezzo della quale si eleva una montagna boscosa di mediocre altezza. In cima alla montagna, però, in luogo del solito giuoco di domino ordinato e intatto delle case di un paese, vedo come un’accozzaglia di nidi di vespa sfranti e sfondati, un grigio di polvere disciolta tra il quale emergono intelaiature in disordine dello stesso colore grigio polveroso. Guardo e cerco di capire, di riflettere; e ad un tratto la verità brutale ristabilisce il rapporto tra me e la realtà. Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio lo erano; adesso sono macerie e sotto quelle macerie stanno sepolti gli abitanti, altrettanto invisibili che i morti di quel cimitero che vedo laggiù, con il suo recinto, e le sue file di tombe, i suoi cipressi. Soltanto, un paese non è un cimitero; non può esserlo che in una o due terribili occasioni; e così comincia ad albeggiarmi nella mente l’orrore che vado scoprendo e che ancora mi aspetta.
L’elicottero descrive più giri intorno San Mango, il paese-cimitero; quindi punta al di sopra delle montagne verso altri disastri. Trasvoliamo alcune catene montuose, altrettante valli; ecco un abitato sparso su un monte articolato in diverse vette. Scendiamo in una cava abbandonata; appena siamo saltati a terra, ecco che ci viene incontro in forma di gruppo di uomini con la scoppola e di donne vestite di nero il coro di questa tragedia paesana. "Qui nessuno ci aiuta, siamo abbandonati da Dio e dagli uomini, i Tedeschi, che sono Tedeschi, sono arrivati prima dei Salernitani; sulle strade fermano le ruspe per lasciar passare le macchine delle autorità; ci vogliono delle gru per tirar fuori i sepolti vivi ed invece ci mandano dei centri di rianimazione che per ora non servono a niente; in quei bar laggiù giocavano a biliardo, a carte, bevevano, chiacchieravano: tutti morti, settanta, ottanta; qui eravamo seimila, adesso siamo duemilacinquecento: gli altri o morti o sotterrati vivi; le quattro chiese: crollate; il municipio: crollato; la farmacia: crollata’". E il sindaco dov’è? "Il Sindaco è morto". Il discorso del coro colpisce per due motivi: da una parte si sente la rabbia di chi ha aspettato minuto per minuto, secondo per secondo, i soccorsi, prima con un sentimento di certezza, poi con speranza, poi con stupore, poi con incredulità, poi alfine con disperazione vera, assoluta e profonda; dall’altra parte, come dire, si avverte un’assuefazione fulminea e quasi compiaciuta all’orrore della situazione. Colui che risponde seccamente che il Sindaco è morto, poco dopo dice, facendo un gesto espressivo con la mano.
Adesso si vede chi ha rubato. L’ospedale nuovo, inaugurato l’altr’anno, è crollato, i malati sono morti gli infermieri sono morti, i medici sono morti. E perché sono morti? Perché c’è stato chi ha rubato sul cemento come il negoziante disonesto ruba sul peso". Nel discorso del coro, "morte" e "furto" vanno oramai insieme, come in altre famose coppie di parole "morte" va insieme con "amore" oppure "passione" va insieme con "morte"; e ci vorranno molti sforzi e molta buona volontà per dividere di nuovo la parola terribile dalla sordida. Siamo a Sant’Angelo dei Lombardi, il paese che adesso tra un finimondo di automobili, di autoambulanze, di camion, di ruspe, per una folla di terremotati e di fotografi tutti con il bavaglino sulla bocca, cerchiamo di perlustrare. I tratti vuoti e puliti d’asfalto si alternano a frane oscene e macerie che fanno pensare a ventri squarciati da cui siano scivolati giù fino ai marciapiedi ed oltre le interiora. Ci chiniamo a raccogliere sulle macerie un cassetto volato via da un comò è ancora pieno di fotografie di gente sorridente; notiamo automobili schiacciate, pestate, ridotte a fisarmonica e sgangherate; seguiamo per un po’ la ricerca dei morti e dei vivi fatta coi cani-lupo tedeschi guidati da soccorritori con rauche voci tedesche; finalmente ci fermiamo di fronte ad una rientranza del monte di macerie, in fondo alla quale una ruspa avanza e indietreggia accanendosi, tra il polverone e la folla, ad addentare il magma della rovina. La solita voce del coro spiega, dimessa, familiare e spietata. "Con la pala sfilata della ruspa c’è chi dice che hanno tagliato in due già due sotterrati che forse erano vivi. Là dentro i morti, con rispetto parlando, sono come i canditi nel panettone. Guardate, guardate, eccone uno". Sì, effettivamente, i morti stanno nella maceria come un orrendo condimento a una pasta dolce. Eccone uno: tra il polverone e la folla, distinguiamo a metà altezza una testa, mezza spalla, un braccio tutto pesto di un colore grigio-ghisa, che sporgono immobili e rigidi dal magma polveroso. Intanto il coro continua. "Ce ne sono tanti sotto terra che sono vivi come noi qui fuori, ma ancora per poco.
Si lamentano, chiamano e poi, non dicono più niente alla fine". I sepolti vivi! E’ uno degli incubi dell’umanità, uno dei più terrificanti e sentiti, forse perché adombra il ritorno non voluto né previsto al ventre materno non più donatore di vita ma di morte, non più di luce ma di tenebre. Sui sepolti vivi c’è tutta una letteratura a cominciare dai racconti di Poe; tutta una aneddotica, a cominciare dall’episodio del cardinale morto da tre secoli il cui teschio, aperta la tomba, fu ritrovato che mordeva lo scheletro del pugno, nell’orrore di un risveglio che segnava l’inizio dell’agonia. Ma in questi paesi dell’Irpinia forse a causa della loro assoluta e umile normalità rurale, l’orrore della sepoltura "in vita" si presenta con aspetti che si vorrebbero definire casalinghi. Si tratta infatti di povera gente murata viva di colpo mentre cucinava o guardava la televisione o chiacchierava nel salotto. La morte non li ha voluti "subito", per un capriccio significativo ha voluto riservarseli per un futuro atroce al quale collaborassero l’imperizia, la imprudenza e la disonestà riunite. Eccoci a Lioni, dove atterriamo nel campo sportivo. Prima di tutto c’è una grande casa di sei piani, con tanti balconi, apparentemente intatta e abitabile. Ma dalle finestre si affacciano non già figure di donne incuriosite ma mucchi inerti di calcinacci. E, come su una faccia devastata da una malattia immonda, crepe nere e tortuose serpeggiano per l’intonaco bianco. Poi, ad una svolta, scorgiamo in una specie di anfiteatro di macerie, una folla immobile e silenziosa che guarda tutta quanta verso un solo punto. Le macerie tra le quali si assiepa la folla sono tipiche del modo di costruire moderno. Le case erano tutte fabbricate col cemento e infatti si scorgono enormi blocchi bianchi dai quali si divincolano e si torcono per l’aria polverosi serpentelli di ferro. Il crollo si spiega, al solito, col furto: si è lesinato il ferro in mancanza del quale il cemento, diciamo così, diventa disarmato.
Ma ora è proprio a questa modernità della costruzione che si debbono i numerosi sepolti vivi e si capisce anche perché: nelle vecchie case fatte di mattoni friabili e di piccole pietre, era difficile sopravvivere: lo sbriciolio della muratura impediva che si formassero delle cavità al tempo stesso ermetiche e vuote. In queste costruzioni moderne, invece, i blocchi di cemento, sovrapponendosi l’uno all’altro nel caos del crollo, queste cavità le formano in gran numero. Così i costruttori hanno fabbricato senza saperlo o meglio spesso sapendolo delle case facilmente convertibili in tombe. C’è un silenzio profondo, di specie quasi religiosa, come una chiesa durante l’elevazione. Che sta succedendo? Stanno cercando di estrarre da una maceria un bambino che dovrebbe essere ancora vivo; la madre, viva, è stata salvata ora è poco. Guardo e vedo che pur nel disordine del disastro c’è una specie di ordine prodotto dalla circostanza. In prima fila ci sono coloro che si limitano a guardare. In seconda fila ci sono i soccorritori, quali in uniforme quali in camice bianco d’infermiere che aspettano di intervenire; in terza fila, nel punto in cui si scava per salvare il bambino, ci sono i congiunti e coloro che scavano. La casa in cui sta chiuso il bambino offre un esempio tipico di crollo attuale: un tetto intatto, tutto di cemento èpiombato sulle macerie di tre piani sottostanti e distrutti, così da appoggiare praticamente quasi sul suolo. Tra questo tetto e il mucchio delle macerie cioè tra un blocco e l’altro di cemento, si sono formate delle cavità e il bambino sta in una di queste. I soldati, gli inservienti, i pompieri tirano fuori e gettano via alla rinfusa, chini e quasi carponi, libri delle elementari, bambole, cuscini, seggiole, mattarelli di maiolica, cocci, stracci; ci si aspetta che da un momento all’altro, invece di suppellettili fracassate, estraggano il bambino, vivo e intatto, intanto un lupo poliziotto dei tedeschi entra ed esce inquieto e instancabile dal buco delle macerie; una voce di donna ripete a intervalli, con accorata ansietà: "Diego, Diego, Diego"; un’altra voce di donna grida qualche cosa in cui si alternano le parole "vivo" e "morto". Alla fine, tra la folla passa una barella e sventola per un momento un lenzuolo bianco: Diego è stato fatto uscire finalmente dalla tomba. Ma non sapremo se e morto o vivo, per quanto ne domandiamo in giro. Già, perché il miracolo di Lazzaro è un fatto sicuro in quanto simbolico; ma l’analoga risurrezione reale a Lioni devastata dal terremoto resta un fatto ambiguo e incerto. Anche se, come speriamo, Diego era vivo.
Più tardi, mentre torniamo verso l’elicottero mi viene fatto di pensare: ecco, domenica scorsa alle sette e mezzo il fremito e il boato del terremoto hanno percorso questa regione, distruggendo, in un attimo sterminatamente lungo, intere comunità. Poco dopo, i telefoni e tutti gli altri mezzi di comunicazione erano bloccati; ma non tutti gli abitanti erano morti, e tra i vivi ci fu certamente qualcuno che aveva una macchina non distrutta e che si precipitò ad Avellino, a Salerno, a Napoli, a tutti i luoghi assai vicini. Si precipitò, annunciò, descrisse, chiese aiuti. Eppure, gli aiuti non vennero in tempo, vogliamo dire le ruspe e le gru che avrebbero potuto salvare tanti che erano ancora vivi sottoterra e poi invece hanno avuto una morte atroce nelle tenebre, nel gelo e nella ristrettezza di tombe improvvisate. Ora perché questo fatale e incredibile ritardo? Che cosa ha impedito che l’urgenza della situazione giungesse fino al cuore di chi poteva provvedere? La risposta a questa domanda sembra dover essere purtroppo la seguente: è evidente che l’inerzia ha un fondo diciamo così storico-religioso. La storia è ormai storia di una lenta ma inarrestabile degradazione; dal canto suo la religione o se si preferisce la religiosità, cioè il fatto di sentirsi legati insieme (tale è il significato della parola) non tiene più, i suoi legami si sono allentati, disfatti.

Alberto Moravia